DA ARCHITETTI A SARTI URBANI

La figura dell’architetto spaventa i committenti e fa tremare le imprese. Poco pratico, con i piedi saldamente fissati per aria, costoso. Tendenzialmente inutile, perché scavalcabile da un geometra (più concreto e meno caro) e da un ingegnere (più sicuro), l’architetto non convince chi deve iniziare dei lavori a casa propria. Con gli occhiali dalla montatura spessa, le sciarpe legate in modo vezzoso intorno al collo ed appassionato di vini e di buon cibo l’architetto viene sempre più caricaturizzato.

Ma non è così secondo me che devono vederci. Perché nonostante anche io porti la sciarpa intorno al collo ed abbia gli occhiali “spessi” non credo che chi oggi decide di fare questo mestiere lo faccia pensandosi a impartire ordini in cantiere e prendendo decisioni dall’alto mandando in rosso il conto del proprietario di casa.

Non lo credo perché sono convinta che ci sia un privilegio nel poter contribuire al sogno di realizzare un’abitazione e non vi è nulla di più bello che poter essere un mezzo per la realizzazione di questo sogno.

E poi non solo di case si occupano gli architetti; si occupano anche di città.

E allora perché non provare ad immaginare l’architetto come un sarto urbano che, percorrendo le strade delle città con il suo metro, progetta il rammendo dei nostri quartieri? La stessa figura assume già una connotazione più positiva e meno distaccata. Più vera, più pratica e più vicina.

L’ architetto che si adopera per migliorare i centri abitati in cui tutti viviamo ricucendo i centri abitati e restituendo quella continuità e coerenza (sia estetica che funzionale) che oggi in molti casi manca, è l’architetto a cui si deve pensare. Quello che agisce avendo come primo obiettivo le persone, i loro svaghi, i loro valori è il sarto urbano che restituisce la città a chi la percorre, a chi la “consuma” e a chi la vive ogni giorno.

È proprio in un’ottica di rammendo che dobbiamo interpretare gli interventi che riguardano i nostri paesi, per dare forma ad un progetto che non sia solo urbano in senso stretto, ma che sia anche un progetto sociale. E allora, a mio parere, i sarti urbani devono, soprattutto in realtà come la nostra (in cui la periferia non ha la connotazione negativa che la caratterizza nelle metropoli), partire da quegli spazi lasciati a sé anche se centrali rispetto al “perimetro urbano”.

Basti pensare, a Novi, tanto per fare degli esempi, all’area della Cavallerizza, alla zona delle Caserme e delle Casermette. Tutti spazi centrali, ma lasciati a sé e che, di conseguenza, hanno acquisito la connotazione di aree marginali. Aree da rammendare, da riparare, da ricucire con il contesto in cui si trovano. Aree che potrebbero essere trasformate in un’ottica di partecipazione e quindi pensate con l’aiuto degli abitanti stessi che le sentirebbero ancora più loro. Partecipare al disegno e alle decisioni delle nostre città vuole dire, infatti, prendersi cura del bene comune, attivare sentimenti di identificazione e riappropriazione che fanno sì che gli spazi urbani tornino ad essere effettivamente condivisi e collettivi.   

Luisa Lombardi

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